Blog

Esperimento letterario

Innanzi tutto voglio augurare a tutti voi buone feste, spero che l’anno che verrà sia ricco di entusiasmanti novità e di nuove avventure, esperienze ed emozioni per tutti voi.

Innanzi tutto voglio augurare a tutti voi buone feste, spero che l’anno che verrà sia ricco di entusiasmanti novità e di nuove avventure, esperienze ed emozioni per tutti voi.

Vorrei iniziare questa esperienza con il blog con un esperimento letterario, posterò un frammento di un racconto e ciascuno di voi è libero di continuarlo, potrete immaginare il prosieguo della storia oppure ciò che succede prima. Potete andare avanti o indietro, correggere ciò che è già stato scritto, aggiungere, tagliare, ecc. Insomma sbizzarritevi con la fantasia e vediamo cosa riusciamo a creare, magari potrebbe venire fuori un romanzo multimediale scritto a più mani 😉

Ecco il frammento:

…sapeva di non avere vissuto la vita che avrebbe veramente voluto vivere. Ma forse si poteva ancora, forse c’era ancora tempo per dipingere una vita completamente nuova su una grande tela bianca. Era stato allora che aveva cominciato ad abbassare la maniglia di porte segrete, a sussurrare parole ad una figlia sconosciuta, a domandarsi dove vanno a finire i padri svaniti nel nulla…”

A voi la parola! Avanti Tante storie, buon lavoro 😉

Evviva le donne!

Le donne hanno il potere di salvare noi uomini. Con il loro amore,l’affetto o con la semplice presenza. Stimolano riflessioni, incoraggiano al cambiamento,ci inducono a diventare uomini migliori. Un fugace incontro di vite tra un uomo e una donna è in grado di sconvolgere un’esistenza.

Faccio un  augurio speciale alle donne per la festa dell’8 marzo condividendo questo mio racconto in vostro onore, alla vostra bellezza, forza e coraggio. Tanti auguri!
Il mondo è pieno di matti. E’ un dato incontestabile, d’altronde quante persone conoscete che hanno commesso almeno una follia nella vita? Per follia intendo quella condizione in cui non agisci più razionalmente, ti fai guidare dagli impulsi, spegni il cervello e segui l’istinto, i sentimenti, ovvero tutto ciò che è opposto alla mente, con i suoi calcoli su ciò che è giusto o sbagliato, i suoi schematismi, gli impulsi a farci muovere seguendo linee prestabilite, su binari sicuri, in modo che la vita di una persona razionale possa sembrare monotona e piatta, ma in fin dei conti sicura e stabile, e cosa si può desiderare di più in questo caotico e ostico mondo se non di condurre una esistenza che poggi su basi solide, anche al costo di una alienazione del proprio essere?
Io ero esattamente una di queste persone. Razionale, impersonale, freddo, distaccato, conducevo una vita noiosa, dominata dalla routine, l’emozione più grande che mi concedevo era una cena in pizzeria con qualche amico una volta a settimana, una pizza, una birra e quattro chiacchiere. In genere era il mio amico a parlare, a raccontarmi dei suoi sogni, delusioni, sofferenze. Io ero “colui che ascolta”, le emozioni altrui non mi suscitavano nessuna empatia, mi scivolavano addosso come una melma inconsistente e senza valore, osservavo gli altri mentre vivevano la loro vita senza alcun coinvolgimento. A volte avevo la sensazione di osservare il mondo dall’esterno di quell’involucro vuoto che era il mio corpo, una gabbia di cane e ossa incapace di provare sentimenti e di ancorarsi alla realtà, e l’ebbrezza di questa sensazione di distaccamento corporeo mi dava l’illusione di sentirmi vivo.
Poi ebbi anche io il mio istante di follia. E cominciai a capire qualcosa della vita…
Odiavo i bus. In generale, odiavo ogni mezzo di trasporto pubblico, con il suo affollamento di persone, la calca anarchica che affolla i vagoni dei treni, i vani dei bus e dei tram, il loro andamento goffo, ipnotico, lento, inadatto alla vita frenetica dei cittadini che hanno fretta di arrivare a lavoro o ad un appuntamento, o ad una visita medica. Il destino dell’uomo moderno è determinato dalla sua puntualità.
Avevo giurato a me stesso che non avrei mai più preso un treno o un bus in tutta la mia vita. Ma quella mattina la mia auto mi aveva piantato in asso, quindi dovetti arrendermi all’evenienza di dover andare a lavoro con un mezzo pubblico. Mi recai in piazza Gramsci armato, oltre che di tanta pazienza, del biglietto per la corsa che avevo comprato al distributore automatico. Il bus A-54 giunse alle 09:07, in ritardo di ben sette minuti e quando la portiera per la salita passeggeri si aprì ero già pronto a protestare per il ritardo ma il mio intento si arrestò immediatamente quando i miei occhi si posarono sul conducente del bus. Pelle bianca color perla, labbra rosso scuro come ciliegie, occhi verde smeraldo in cui si intravedeva una scintilla vitale capace di causare il batticuore a coloro che incrociavano quello sguardo divino, capelli biondi lisci come la seta, in cui smarrire le proprie dita mentre si carezza quel viso angelico…
“Che hai da guardare? In più blocchi la fila, sbrigati a salire, o fatti da parte e lascia passare gli altri,rimbambito!” Il tono scorbutico con cui mi accolse sul bus non aveva niente a che fare con l’idea di donna-angelo che la mia mente aveva prodotto, ma ciò non bastò a farla scadere dal ruolo di novella Beatrice che avevo fantasticato nella mia mente ebbra di dolce stilnovo. In un attimo mi erano tornate alla mente tutte le fantasie giovanili sorte sotto l’influenza dello studio dei grandi classici letterari ai tempi del liceo, Dante, Petrarca, Leopardi…avevo infine trovato la mia Beatrice, Silvia, Laura, l’ancora di salvezza in questo mondo sporco e crudele. Alla fine mi ero anche io innamorato, nel modo più incredibile per me, un colpo di fulmine, quando ormai non ci speravo più, anzi avevo addirittura smesso di pensarci.
Mi accomodai nel sediolino da passeggero immediatamente dietro alla postazione del conducente, dove sedeva la mia amata autista e cominciai a osservarla e sospirare. Non dimenticherò mai la sensazione di benessere provata in quei momenti, era come nuotare nell’aria e provavo un senso di leggerezza e pienezza allo stesso tempo, la corriera sembrava galleggiare nell’etere, come se avesse imboccato un arcobaleno che facesse da ponte col cielo blu e ci stesse scorrazzando tra le nuvole, da dove si poteva godere una panoramica migliore sulla vita. Il mondo era un posto più bello visto da lassù.
Da lì a qualche minuto la mia follia avrebbe raggiunto il mio picco massimo. Giunsi alla mia fermata, avrei dovuto scendere dal bus e abbandonare quell’angolo di paradiso, per tornare mestamente nel mondo grigio e insignificante che mi ero lasciato alle spalle, al mio lavoro, i rapporti insulsi e privi di valore, insomma alla mia vita piatta. Mi aggrappai al bus come un naufrago alla scialuppa di salvataggio e andai oltre, la portiera si richiuse e continuai la mia corsa senza una meta, al diavolo il lavoro, oggi i miei colleghi non mi avrebbero visto arrivare in ufficio, niente cartellino da timbrare né pratiche da sbrigare, non me ne fregava niente delle conseguenze, il rimprovero del mio superiore, la sanzione che mi avrebbero comminato, la lettera di richiamo, il mio unico pensiero era di continuare ad avere quella dolce creatura a pochi metri da me, di condividere con lei il mio spazio vitale.
Dopo qualche altro minuto di contemplazione decisi che era arrivato il momento di andare oltre e di provare a relazionami con lei. Presi il coraggio a due mani e mi avvicinai alla postazione del
conducente. Espirai profondamente per scrollarmi di dosso tutta la tensione che quel momento mi provocava, era la prima volta nella mia vita che provavo un approccio del genere con una ragazza e la mia timidezza mi faceva contorcere lo stomaco e schizzare il cuore in gola, ma ormai non potevo tirarmi più indietro, la vita mi stava offrendo un’altra occasione e mi stavo giocando il tutto per tutto, stavo commettendo follie in nome di principi e ideali che mettevano in discussione l’esistenza che avevo condotto fino a quel momento.
Mi avvicinai di qualche altro passo, ansimando e tremando.
“Ehm, scusi…” esordii.
“E’ vietato parlare al conducente” interruppe lei bruscamente.
“M-mi dispiace. Credo di essermi perso…”Lei distolse lo sguardo dalla strada per un istante e mi lanciò una fugace occhiata carica di disprezzo e diffidenza, poi tornò a posare gli occhi dinanzi a sé. “ Dove voleva andare? Questo bus va in periferia. Può scendere alla prossima fermata e prendere un bus che la riporti in centro…”
“Mi sono perso” ripetei. Credo che avessi uno sguardo simile ad un pesce lesso, ma usai il tono di voce più deciso che potessi tirar fuori. Stringevo le mani tremanti in un pugno e mi avvicinai di un altro passo, serrai le labbra in una smorfia e rimasi in silenzio ad osservarla, sperando che la mia allusione fosse colta, che lei capisse il vero senso della mia frase. “Cara autista-angelo, la mia vita è stata stravolta dal mio incontro con te, fino a stamattina avevo delle certezze e una certa visione dell’esistenza ma in un attimo ho messo tutto in discussione e sento di aver deviato dal percorso che stavo seguendo, verso un orizzonte incerto. Non so dove mi porterà questo nuovo sentiero ma è stupendo percorrerlo perché questo nuovo tragitto mi fa sentire vivo e sento che se mi sei accanto possono accadermi solo cose belle. Grazie mia dea, è bello perdersi al tuo fianco.”
Questi erano i miei pensieri, che non avevo il coraggio di rivelarle, e che erano sintetizzati
nell’espressione “mi sono perso.” Speravo giungesse al vero senso di quella frase attraverso la mia postura e al modo in cui la guardavo, ma lei non fece una piega, rimase ligia al suo dovere e non reagì alle mie parole, si limitò ad un gesto di sufficienza con la mano che mi invitava ad allontanarmi. Tornai al mio posto e rimasi sull’autobus per tutta la mattina, non avevo una meta da raggiungere, solo il desiderio di starle accanto mi spingeva a restare su quel mezzo, il quale si riempiva e svuotava ad ogni fermata, l’umanità si dava il cambio e sfilava davanti ai miei occhi nella speranza di riaccendere in me un interesse nei suoi confronti, ma non riuscì a distogliere la mia attenzione, ormai mi interessava solo di lei, era tutto il mio mondo. Passarono le ore e io ero sempre lì, saltuariamente gettavo uno sguardo fuori dal finestrino e rimiravo un paesaggio a me sconosciuto, dai tratti anonimi. Ero certo di non essere mai stato in quei luoghi, ma neanche questo pensiero suscitò in me un interesse tale da distogliermi dall’ossessione che mi attanagliava la mente, così ogni volta tornavo alla mia contemplazione.
Alla fine della mattinata, quando ormai ero rimasto l’unico passeggero presente sul bus, giungemmo al capolinea. Ci fermammo in un enorme piazzale che sorgeva al centro di una radura nella campagna esterna alla periferia della città. Lei, senza scomporsi per il fatto che fossi ancora presente a bordo all’arrivo nell’autorimessa, si sollevò dal sediolino, si stiracchiò le braccia e scese dal bus. Non appena scese l’ultimo gradino mi lanciò un’occhiata e accennò un sorriso, il primo di quella mattinata. Sembrava più rilassata e distesa, lontana dagli atteggiamenti scontrosi e ostili che aveva avuto fino a quel momento. Mi fece cenno con un dito di raggiungerla e io saltai come una molla dal sediolino e in un istante fui di fronte a lei. Per un attimo ebbi la sensazione che il cuore stesse per schizzarmi dal
petto. Lei si accese una marlboro e dopo aver espirato il fumo mi sorrise di nuovo. “Quindi ti sei perso,eh?” disse.
“Sì, nei tuoi occhi” risposi.“Che buffo, sei. Neanche mi conosci e passi una mattinata in un bus per starmi dietro? Non avrai qualche rotella fuori posto?”
“Non me lo spiego neanche io. Non mi era mai successo, credimi. E’ tutto così illogico,irrazionale, hai ragione, non ti conosco neanche, non so nulla di te, non avrei motivi per provare ciò che sento. Eppure credo di essermi…”
Non riuscii a terminare la frase. Chinai la testa e arrossii per l’imbarazzo, ero sempre stato timido e orgoglioso, e quella dichiarazione rappresentava uno sforzo immane per me. Tenendo lo sguardo basso notai la targhetta della divisa dove c’era scritto il suo nome, Marcella M. col cognome puntato.
“Piacere Marcella, io mi chiamo…” Non mi lasciò terminare la frase, mi poggiò l’indice sul labbro per zittirmi e si portò l’indice dell’altra mano davanti alla sua bocca. “Non voglio saperlo” disse con tono grave, poi si voltò e cominciò ad allontanarsi.
“Aspetta! Non così, ti prego. Dammi una possibilità, prendiamoci un caffè, facciamo una chiacchierata. Forse è il destino che ci ha fatti incontrare, magari potrei piacerti anche io, potrebbe essere l’inizio di qualcosa. Io ti a…”
Ennesima interruzione. Vidi il primo piano di un indice che mi volteggiava dinanzi agli occhi, per poi posarsi ancora sulla mia bocca.“Non voglio più ascoltarti. Sai il motivo? Perché in parte ti credo, Forse il nostro è un incontro voluto dal destino.”
“Ma allora ho una speranza!” dissi.
“No. Forse eravamo destinati ad incontrarci, o forse no. E io non voglio rischiare”
“Perché?” chiesi in preda all’angoscia.
“Proverò a spiegarti. Esistono due tipi di sognatori, a questo mondo. Quelli che ambiscono a
concretizzare i loro sogni, credono che la loro felicità dipenda dal rendere tangibile e materiale una intenzione, un’idea, un progetto di vita. Sono i più entusiasti, coraggiosi e determinati, il mondo è nelle loro mani e conducono la loro vita su binari sicuri, verso una meta, un traguardo chiamato felicità. Poi ci sono quegli altri, che hanno solo una vaga idea del loro sogno, sbandano di continuo ad ogni curva, insicuri e timorosi, non vanno quasi mai fino in fondo perché temono che la realtà non corrisponda alle loro aspettative, per non vivere l’amarezza delle delusioni vivono il loro sogno unicamente nella loro testa, poco più di un pensiero astratto, una fantasia infantile destinata a perpetuarsi in eterno, un palliativo contro l’amarezza del mondo. Io appartengo alla seconda categoria”
Fece una pausa, accese un’altra sigaretta poi indossò un paio di occhiali da sole.
“Capisci? Non voglio andare fino in fondo perché preferisco sognare. Stasera mi coricherò nel letto e comincerò a fantasticare su noi due, creerò un’immagine ideale su di te, che non corrisponderà alla realtà. E quell’idea mi farà emozionare, commuovere, divertire, sarai l’uomo perfetto, il mio principe azzurro, mi proteggerai e amerai fino alla morte. Invece se vado fino in fondo potrei rimanere delusa, amareggiata, e non voglio più soffrire per amore.”
Ogni sua parola mi faceva male come una coltellata. Stavo acquisendo consapevolezza sul senso del suo discorso e parallelamente maturava in me la convinzione che non avessi speranze, perché lei aveva maledettamente ragione.
“Non credi più a quel sogno dunque? Di un amore perfetto, l’incontro di due anime gemelle?”
“L’amore è mera illusione. Un bel sogno destinato ad essere relegato nei recessi dell’animo, da cui emerge saltuariamente per darci una sensazione di benessere, l’estasi di un breve lasso di tempo. Poi deve essere respinto, rinnegato, prima che la realtà prenda il sopravvento, lacerando ogni parte del nostro essere, dallo spirito ad ogni singola cellula del nostro corpo, col dolore e il rimpianto”
“Fino a stamattina condividevo questo pensiero. Destino crudele! Perché provo questo sentimento così forte per te? Proprio di una come te dovevo innamorarmi per la prima volta nella mia vita? Come abbiamo potuto incontrarci? Ora Io ricomincio a vivere grazie a te, che stai invece lentamente morendo. Non scappare, Marcella. Ferma la tua fuga, non rinunciare alla vita. Altrimenti il tuo dolore mi travolge.”
“Troppo tardi” disse e salì su un altro bus, parcheggiato a pochi metri di distanza. In un istante mise in moto il motore e schizzò via. “Aspetta!” urlai, mentre rincorrevo il bus. Vidi il suo volto riflesso nello specchietto retrovisore che si allontanava sempre di più. Per un attimo ebbi la sensazione che, dietro gli occhiali da sole, stesse piangendo. Poi scomparse dalla mia vista. Rimasi per un tempo incredibilmente lungo nel mezzo del piazzale, in ginocchio, mentre i bus mi sfrecciavano di fianco. Ero attonito e sconvolto, quando realizzai ciò che era successo presi un mezzo per tornare in città.
Non incontrai più Marcella, né la cercai. Sentivo che era giusto così, il nostro incontro aveva avuto un senso, ma era un senso dettato dalla sua fugacità. Mi piace credere che un legame ci unisce ancora. Lei aveva innescato un cambiamento in me e chiunque lasci dei segni così profondi nella vita di un individuo ne fa parte per sempre.
Ti porto dentro di me e non ti lascio più. Sarai sempre con me, ovunque tu vada, mia compagna di viaggio verso una nuova partenza, in una mattina soleggiata d’inizio primavera.

Ombre 3: avanti tutta!

Condivido un ulteriore frammento di “ombre”, la storia va avanti, prende sempre più vita 🙂 Buona lettura e ovviamente buona scrittura a tutti 😉
Era quasi mezzogiorno. La pioggia cadeva incessantemente così decisi che era ora di rientrare in camera. La giornata era ancora lunga e non avevo voglia di starmene tutto il giorno chiuso in dormitorio, ma d’altronde non potevo fare diversamente, ero bagnato fradicio dalla testa alla punta dei piedi e non volevo rischiare di beccarmi un malanno proprio ora che avevo finalmente trovato un lavoro, così mi incamminai verso la residenza universitaria. Imboccai via di Fontebranda e cominciai a percorrerla con passo deciso, evitando di correre per non incappare di nuovo in un malore come mi era accaduto poc’anzi.
A metà del tragitto mi ricordai che avevo indosso una felpa col cappuccio. Ebbi un moto di risentimento verso me stesso pensando che, se me ne fossi ricordato prima, avrei potuto utilizzarlo per ripararmi almeno la testa. Decisi di indossarlo lo stesso, anche se ormai non serviva più a niente
Arrivai davanti al portone della residenza e per un attimo esitai ad entrare. Ero nuovamente indeciso. A quell’ora le camere erano vuote, tutti gli studenti erano fuori dal dormitorio, nel pieno dei loro impegni e dell’espletamento dei loro doveri, a seguire corsi universitari, a studiare in biblioteca o a casa di un amico…ero l’unico, io, a non avere uno scopo, un compito da svolgere…a trascinare le mie giornate lungo binari morti, senza meta…senza scampo…
Alzai lo sguardo al cielo per l’ennesima volta. La compattezza delle nubi, che non facevano trapelare neanche uno spiraglio d’azzurro, l’orizzonte contornato da lampi e il rombo dei tuoni in lontananza, la mancanza di vento, mi convinsero che era ben lungi dallo spiovere, così mi rassegnai definitivamente ad entrare. Salutai distrattamente l’addetto alla portineria, che mi rispose con aria svogliata senza interrompere la lettura del quotidiano che reggeva tra le mani, mentre si ciondolava sulla sedia tenendo le gambe stese sul bancone della reception. Imboccai le scale e giunsi al secondo piano, dove si trovava la mia camera, la 209. Entrai e mi fiondai immediatamente sul letto, senza cambiarmi, inzuppando le lenzuola e le coperte con i miei vestiti. Per qualche motivo mi sentivo improvvisamente stanco. La spossatezza attraversava ogni centimetro del mio essere, rendendomi debole e senza forze fisiche e mentali. Non riuscivo a fare alcunchè, sia che si trattasse di muovere un minimo muscolo del mio corpo o di formulare un pensiero di qualsiasi genere.
Rimasi così, in quel limbo atemporale in cui non esistevo nè in forma nè in sostanza per una serie di minuti che parvero un’eternità, finchè mi decisi a sollevarmi su un fianco, piegai il gomito e poggiai la testa sul palmo della mano, mettendomi ad osservare il lato della camera di fronte a me. Fu allora che mi accorsi che le valigie del mio compagno di camera non c’erano più. Evidentemente aveva lasciato il dormitorio, mentre ero fuori doveva essere rientrato per prendere le sue cose.
Mi rimisi supino sul letto, incrociai le braccia e cominciai a mordicchiarmi il labbro inferiore, mentre con lo sguardo vagavo distrattamente da un angolo ad un altro del soffitto. Il pensiero della partenza del mio compagno di camera mi aveva rattristato molto. Non eravamo amici, ma era la persona più simile ad un amico che avessi in quel difficile periodo. Un paio di sere prima avevamo trascorso qualche ora a chiacchierare. Mi aveva parlato della sua vita, dei suoi sogni e progetti. Dei suoi studi alla facoltà di Lettere con l’intenzione di specializzarsi nell’indirizzo di Archeologia, per intraprendere la carriera di studioso di civiltà perdute. “Che bel sogno”, gli dissi, mentre ascoltavo a bocca aperta le sue confessioni. Mi confidò che molte persone lo criticavano per questi suoi progetti, ritenendoli stupidi e infantili, partoriti da una mente immatura che non ha ancora fatto i conti con la concretezza e la materialità della vita. Ma io lo incoraggiai a non mollare. A continuare a credere nel suo sogno.
” Nessuno può arrogarsi il diritto di giudicare i sogni altrui, di considerarli vacui e inconsistenti. Più un sogno è difficile da realizzare più risulta bello e affascinante agli occhi di chi ha la forza e il coraggio di vederlo come un’occasione di completamento di se stessi. Come il pezzo mancante del mosaico della nostra vita, il fine ultimo della nostra esistenza. Qualcosa che, se lo abbandoniamo, rimane dentro di noi, si ossida in qualche parte del nostro essere pronto ad emergere sotto forma di rimpianto a distanza di giorni, mesi o anni. Il sogno è qualcosa che fa male, se non lo trattiamo bene, lo trascuriamo, non gli diamo la giusta attenzione… stolto è colui che si dimentica del suo sogno, perchè si illude soltanto di averlo dimenticato…”. Mentre gli parlavo si addormentò, e sul volto aveva dipinta un’espressione beata, serena, come quella di una persona che si è appena riappacificata col mondo e con se stesso. Mi piace pensare che il mio incoraggiamento sia servito a quel giovane sognatore a coltivare nuove speranze e ad aggrapparsi con rinnovato vigore e coraggio al suo sogno. Un domani la sua felicità sarebbe dipesa anche da me e da quell’incontro casuale e all’apparenza insignificante…ma che poteva cambiare un’esistenza e un destino.
Mentre ero preda di questi pensieri mi ricordai che dovevo mangiare qualcosa. Non avevo fame ma dovevo sforzarmi, memore del mancamento che mi aveva colpito in mattinata. Aprii l’armadio, afferrai lo zaino ivi riposto e ne tirai fuori un pacco di biscotti. Era un formato gigantesco, una confezione da 2 chili che avevo comprato in offerta al supermercato e che utilizzavo per rifocillarmi tutti i giorni, a colazione, pranzo e cena, in modo da risparmiare il più possibile sui pasti. Afferrai un biscotto e lo addentai, lo divisi a metà e cominciai a masticarlo lentamente, come per cercare di assaporarlo, di riconoscergli una squisitezza che in realtà non aveva. Non erano un granchè, quei biscotti. Per forza costavano così poco…
Terminai il primo biscotto e ne presi un altro. In quel momento mi sopraggiunse un altro pensiero legato al mio ex compagno di camera. Dato che mi aveva visto diverse volte nell’intento di consumare il mio pasto con quei biscotti mi aveva soprannominato ‘Biscottino’. Era usuale che la prima frase che dicesse la mattina appena apriva gli occhi era : “Buongiorno biscottino”, vedendomi sgranocchiare un biscotto mentre consumavo la mia colazione.
“Biscottino…non ci siamo neanche mai presentati. Non conosco neanche il suo nome. Nè lui conosce il mio.” Ricominciai a piangere. Piangevo spesso in quel periodo. La scomparsa dalla mia vita di una persona che era poco più di un conoscente era abbastanza sconvolgente da scuotermi al punto da farmi versare fiumi di lacrime. Era in momenti come questo che mi rendevo conto della mia instabilità emotiva. E di quanto mi trovassi sull’orlo dell’abisso. Un alone di morte mi volteggiava intorno, facendomi vivere quei momenti come gli ultimi istanti della mia vita. Avevo la certezza assoluta che non sarei mai uscito dal baratro in cui ero piombato. I miei vani sforzi per risollevarsi, la ricerca di un lavoro, i barlumi di vita ordinaria che mi concedevo, non erano altro che tentativi di ingannare me stesso. Da grande bugiardo quale ero, di chi ha mentito per tutta la vita, e ha fatto dell’inganno e dell’ artificio retorico l’espressione massima della sua abilità e delle sue conoscenze, la soluzione migliore che avevo trovato da anteporre al dramma che stavo vivendo era quella di raggirare me stesso. Di illudermi che una soluzione si sarebbe trovata.
“Quanto tempo manca ancora? Voglio sapere se ho ancora il tempo per trascorrere un’ora lieta, bevendo una birra in compagnia di un amico o guardando un film con la mia famiglia. Non chiedo la felicità, ma la possibilità di assaporare per l’ultima volta il gusto della vita, di congedarmi facendo ammenda, chiedendo scusa e grazie alle persone che mi hanno voluto bene. Un ultimo momento lieto prima della fine. Forse non lo merito, ma vorrei provare per l’ultima volta le sensazioni degli anni passati, quando il mondo sembrava più bello e la mia vita non era ancora piombata nelle tenebre che ora mi avvolgono. L’ultimo desiderio…quanto tempo manca ancora?”
Mentre formulavo questi pensieri, senza accorgermene, mi addormentai.

Ombre: l’esperimento continua

Ciao tantestorie,eccoci di nuovo qui. Continua l’esperimento letterario “ombre”, condivido con voi il proseguimento della storia come da me concepita, magari troverete nuovi spunti per proseguire voi,oppure per modificare quanto ho scritto io. La storia prende forma, butto altra legna da ardere sperando di stimolare la vostra fantasia e creatività 😉

Buon lavoro ragazzi. E buon viaggio!

Passai il resto della mattinata vagando senza meta per le strade del centro. Feci 4 volte il tragitto che da piazza Gramsci conduce a Banchi di Sopra, arrivato all’angolo di Piazza dell’ Indipendenza mi fermavo puntualmente ogni volta ad osservarmi intorno con animo spaesato, quindi tornavo indietro ripercorrendo lo stesso tragitto che mi aveva condotto lì. Ripetei meccanicamente per mezz’ora tutti i gesti che avevano contraddistinto questa mia inutile passeggiata senza senso per vie che avevo attraversato centinaia di volte nei vari anni trascorsi in quella cittadina ma che quella mattina mi risultavano stranamente anonime e sconosciute. Mi fermai ogni volta a fissare la stessa vetrina dello stesso negozio di abbigliamento. Mi accesi per quattro volte una sigaretta non appena arrivato nei pressi della Croce del Travaglio. Salutai per l’ennesima volta l’artigiano che se ne stava sulla soglia d’ingresso del suo negozio, in attesa di clienti che non arrivavano, di persone desiderose di acquistare i suoi prodotti di artigianato locale. Probabilmente troppo depresso e rammaricato per gli affari che andavano male per chiedersi se quello strano ragazzo che era passato varie volte in una manciata di minuti davanti al suo negozio avesse qualche rotella fuori posto.
Durante tutta la passeggiata mantenni un passo deciso, come se dovessi svolgere qualcosa di importante, o avessi un appuntamento, o ancora stessi fuggendo da qualcosa. Forse nella mia condizione di individuo in bilico tra realtà e follia ero giunto a convincermi che bastasse correre più veloce, avanzare con passo svelto per far sì che il tempo passasse meno in fretta, come una corsa a rincorrerlo, per sovrastarlo, dominarlo, farlo muovere secondo la propria volontà, il dominio di una mente sull’elemento più indomabile e impietoso sovraordinato a comandare le nostre esistenze.
Mantenni questo andamento fin quando non mi accorsi di avere il fiatone. A quel punto rallentai fino a fermarmi in un angolo imprecisato del corso principale. Mi piegai sulle ginocchia e cominciai a tirare dei lunghi sospiri, in modo da rallentare i battiti del cuore, che mi tamburellava nel petto a ritmo forsennato. Mi rimisi in posizione eretta mentre tiravo l’ultimo, lungo sospiro, sollevai la testa in su, in modo da osservare il cielo. Mi accorsi per la prima volta che era una mattinata uggiosa e che stava per piovere. Era nuvoloso, di quelle nubi scure, plumbee, che minacciano un temporale coi fiocchi.
Ad un certo punto mi accorsi che stavo barcollando. Evidentemente quelle lunghe boccate di ossigeno mi avevano stordito e vedevo il mondo girarmi intorno, come se fossi salito su una giostra che roteava a ritmi vorticosi.
“Bisogno di aiuto, giovane?”
Chinai la testa di lato e notai una vecchina poggiata al suo bastone, che mi osservava dal basso del suo metro e sessanta scarso con aria preoccupata. Cercai di fare un passo in avanti ma annaspai in un paio di zampate barcollanti, come se mi fosse venuta a mancare la terra sotto i piedi. La vecchina, in barba ai suoi settanta e più anni, fece uno slancio notevole, mi afferrò per un braccio con una presa vigorosa e mi tenne su facendosi leva sul suo bastone per tenere in piedi me e anche se stessa, che per un attimo aveva cominciato a ondeggiare in mia compagnia, come trascinata sull’assurda giostra su cui ero piombato e che aveva rivoltato e messo sottosopra me e il mondo intero.
“Non è niente signora,la ringrazio per l’aiuto, sono solo un pò stanco, stanotte ho dormito poco, ora mi siedo un pò e passa tutto…”
Mi sedetti sul bordo del marciapiede e cercai di concentrare lo sguardo su un punto fisso dinanzi a me, fin quando il mondo smise di girarmi intorno e tornò ad animarsi seguendo i ritmi abituali.
“Giovanotto, lei ha una gran brutta cera, si riguardi”, riprese la vecchietta. “Secondo me non mangia abbastanza. E’ magro come un chiodo. L’ha fatta colazione?”
Stavo per annuire ma mi fermai. Non me ne ero neanche reso conto ma era dal giorno precedente che non mettevo niente sotto i denti.
“Come sospettavo. Mi dia retta, vada in quel bar, si prenda una bella focaccia e un succo d’arancia e si sentirà come nuovo. Ce li ha i soldi per la colazione?”
“Sì, signora. Ora vado. Grazie di tutto.”
“Allora vado anche io, eh? Buona giornata e buona vita!” Accompagnò le ultime parole con un gesto grintoso, agitando in aria il pugno chiuso, come a spronarmi a lottare, a rialzarmi e a riprendere il mio cammino.
Mentre si allontanava lentamente, poggiando il suo bastone dinanzi a lei, istintivamente la chiamai. “Signora…” La vecchina si voltò. “Grazie mille.” A quelle parole l’anziana signora spalancò la bocca in un gesto di stupore. Poi il suo viso cominciò a contrarsi in una smorfia e capii che si era commossa. Forse non fu ciò che dissi ad impietosirla, ma ciò che vide. Stavo piangendo. Calde lacrime mi rigavano il volto fino ad inumidirmi le labbra, che tremavano per l’emozione mentre cercavo di ripetere quella parola che mi proveniva direttamente dal cuore. “Grazie… ” Era da tanto che qualcuno non era gentile con me. Pensai che forse al mondo esistevano ancora delle persone buone.
L’anziana signora rimase per alcuni secondi ad osservarmi, confusa ed indecisa su come comportarsi. Alla fine optò per un gesto semplice e sincero, alzò il braccio con cui impugnava il bastone e cominciò ad agitarlo dinanzi a sè, da destra verso sinistra, a disegnare un’ampia diagonale nell’aria, che voleva esprimere un gesto di saluto. Successivamente si voltò e si incamminò nuovamente. Prima che distogliesse del tutto lo sguardo da me riuscii a notare una strana luce nei suoi occhi. Un luccichio appena percettibile, che avevo visto tante volte nello sguardo degli esseri umani. Che dovevano avere anche i miei occhi, un attimo prima che cominciassi a versare le mie lacrime.
Rimasi ad osservare la vecchina mentre si allontanava, fin quando non sparì dall’orizzonte. Non si era più voltata. Neanche una volta.
Restai seduto a lungo sul bordo del marciapiede, cercando di concentrarmi il più possibile su quel calore che mi aveva inondato il petto dopo quell’incontro, per non farlo svanire, per assaporarlo pienamente, un sapore che avevo dimenticato, che si forma nelle viscere del nostro essere ogni volta che abbiamo un incontro con una persona dall’animo puro. Che ci dona la sensazione che la vita valga la pena di essere vissuta, solo per sentire la magia di quel calore generato dall’incontro di due anime affini che si incrociano anche una sola volta nella vita, ma sembra si conoscano da sempre. E per sempre ciascuno sarà parte indelebile dell’altro.
Passai tutto il tempo con il capo chino a fissare l’asfalto della strada, fin quando un picchettio sulle spalle distolse la mia attenzione, così volsi lo sguardo al cielo. Stava cominciando a piovere. Chiusi gli occhi e lasciai che le gocce di pioggia mi bagnassero il volto. Quando la pioggia cominciò a cadere in modo scrosciante mi decisi ad alzarmi. Mi regalai un ultimo istante di pace, in cui annullare il mio essere e diventare tutt’uno con la natura, allargando le braccia e mostrando i palmi delle mani al cielo così che le gocce di pioggia inumidissero anche quell’altro lembo scoperto del mio corpo, dopodiché mi decisi ad incamminarmi. A farmi risucchiare nelle tortuose vie del centro. A camminare senza una meta, vagando per la città, aspettando che un altro giorno finisse.
“E ora dove vado?”, pensai.

Mi presento a tutti,

cari amici de “iltantestorie”! Mi chiamo Alessandro e sono nato in un piccolo paese dell’Umbria, ai confini con la Toscana. Regione, quest’ultima dove attualmente vivo con la mia famiglia. Da qui è iniziato il percorso che mi ha portato oggi a diventare adulto, crescendo si, in mezzo a mille peripezie, che lo sappiamo tutti essere formative, ma da sempre contraddistinte da quel pizzico di inconsapevolezza che caratterizza chi si fa ricco di valori. Sono proprio questi, oggi che fanno riemergere i tanto cari ricordi di una vita, che un tempo era lì, ben salda dentro di noi e lentamente ci emozionava assomigliando con lo scorrere del tempo, sempre più ad una vera fiaba, che a vita vissuta, se poi meglio la paragonassimo ai giorni nostri. Non ho mai dimenticato queste storie, ne mai le dimenticherò, a volte anche raccontate dai nonni, davanti al calore del focolare di casa o nel divano le sere d’inverno; oramai sono parte di me, così nostalgiche, sono sempre tutte lì, riposte dentro al mio cuore, scritte con inchiostro diventato indelebile. A poco a poco cercherò di tirarle fuori, per magari trasformarle in racconti, piccoli pensieri, sorrisi, espressioni che a volte ti cambiano la vita. Anche a te chissà, proprio adesso che stai leggendo! I sorrisi, con le loro incurvature imperfette ti modificano il volto; lo fanno più buffo, goffo e ti rendono la giornata un po’ più leggera, che oggi non guasta; poi un giorno chissà, giocherellando un po’ con la mente, magari potrai diventare proprio tu, il protagonista!

Buona lettura a tutti e buon divertimento!

Alessandro

Se io fossi…

Ciao a tutti tantestorie, come state? Rilancio con un nuovo esperimento letterario, spero che lo troverete divertente. In questa occasione vi propongo l’esercizio “se io fossi…”

Immedesimatevi in uno scrittore che amate, immaginate di essere lui. Domandatevi “se io fossi…cosa scriverei?” ed esplorate le infinite potenzialità della fantasia creativa. Scrivete un racconto seguendo il suo stile, il suo linguaggio, oppure scrivete affidandovi alle emozioni che i suoi scritti vi hanno suscitato.

Come al solito apro io le danze 😉 Vi posto un racconto che ho realizzato dopo essermi immedesimato in Stefano Benni. Si intitola “il furto del portagioie”, leggendolo potrete riconoscere la vena comica, grottesca e surreale di questo fantastico autore. Ovviamente non ho la presunzione di affermare che sia un racconto alla sua altezza, tuttavia spero di strapparvi un sorriso,  uno dei tanti che vi strapperebbe il geniale scrittore emiliano.

Buona lettura! Spero di leggervi in tanti 😉

P.s. Avvertenza: lasciate andare lo spirito critico e auto-giudicante. E’ un gioco, spero che nessuno pensi che è un esperimento troppo difficile perché scatta immediatamente il paragone con l’autore di riferimento. Nessuno vuole sfidare i mostri sacri della scrittura, in questo blog non abbiamo l’obiettivo di diventare grandi scrittori ma semplicemente  di confrontarci, stimolarci e condividere un pezzetto di strada insieme

IL FURTO DEL PORTAGIOIE

Quando Dante Terrazzieri, titolare dell’omonima macelleria, sita nell’omonima piazza dell’omonimo paese, tornò a casa e la trovò svaligiata dai ladri, cacciò un urlo potente, ma così potente, che l’onda d’urto che generò mandò in frantumi i vetri delle finestre, piatti, bicchieri, tavoli, casseforti blindate, portoni in legno rinforzato e tutto ciò che era frantumabile nell’arco di due miglia. Si fiondò nella camera da letto e cercò il suo portagioie.

“Tutto ma non il portagioie, vi prego, non potete rubarmi il portagioie!”, ripeteva ossessivamente tra sè e sè.

Non lo trovò. Rubato, insieme ad un televisore,un set di posate in simil-argento, l’abbonamento a vita in palestra (premio riservatogli in quanto vincitore del concorso “salsiccia dell’anno”, promosso dall’unica palestra del paese in ragione di un’abile operazione di marketing: più salsicce uguale più lonze da rassodare e più lardo da bruciare in palestra,uguale più clienti) e la foto (montaggio) con tanto di autografo (falso) che lo ritraeva sorridente in compagnia di Che Guevara.

Dopo un nanosecondo che parve un’eternità, la sua ira funesta si abbatté sul mobilio dell’appartamento, sfasciò sedie, poltrone, divani e sofà, triturò in maniera impeccabile qualsiasi oggetto gli capitasse a tiro, tazza del cesso e cappa della cucina in acciaio compresi. Quando in casa sua non rimase più nulla da distruggere passò al vicinato, attraversò in modalità tank il muro della cucina e piombò come una palla di cannone nel soggiorno dei coniugi Ambrogini, spalmò sul pavimento la signora e disegnò una nicchia nel muro con la sagoma di lui, più tardi ci vollero quattro persone armate di piede di porco e scalpello per staccarlo dalla parete.

Poi l’iracondo Dante si recò al piano di sotto, picchiò con un bastone la prostituta Teresona del primo piano e le trombò il cane, e viceversa. Scese in cortile , dove dei ragazzini giocavano a calcio, ammonì tutti e 11 i giocatori di una delle due squadre e ne espulse 7, decretando la vittoria a tavolino della squadra del condominio confinante per impossibilità a proseguire la partita causa inferiorità numerica.

Entrò nel bar Centrale e bevve 32 cappuccini e 18 caffè, non pagò il conto e sfasciò una caraffa di birra in testa al cassiere che aveva osato tossire mentre Dante stava uscendo dal locale, gesto interpretato come allusorio al mancato pagamento delle consumazioni (in realtà il cassiere era raffreddato).

Quando finalmente intervennero le forze dell’ordine, fu una carneficina. Dante approfittò dell’attimo di distrazione durante cui poliziotti e carabinieri discutevano su quale tra i due corpi avesse la precedenza d’intervento per afferrare un carro armato giunto nel frattempo insieme al grosso dell’esercito e scaraventarlo contro le pattuglie schierate a posto di blocco, facendole volare via come birilli. I militari, dinanzi a quella furia incontrollabile, batterono in ritirata, con occhi colmi di terrore, abbandonarono le armi, i mezzi, stivali, elmetti e qualcuno si cagò anche addosso.

Alle 4:34 a.m. l’ira funesta del Terrazzieri parve placarsi. Mentre era intento a sradicare il sedicesimo palo della luce si fermò di scatto, si guardò intorno spaesato, sbattè un paio di volte le palpebre e si ritirò verso casa. Alle 4:47 a.m. iniziò il suo pianto a dirotto, un ululato lamentoso risuonò in ogni via del paese e i vecchietti del locale circolo comunista, veterani partigiani parmigiani della Seconda guerra mondiale, scambiando il lamento per il suono della sirena antiaerea, scesero in strada armati fino ai denti, convinti che fosse scoppiata nuovamente la guerra. L’ ottantaquattrenne Giorgietti morì d’infarto nel tentativo di riallacciarsi i lacci degli scarponi che si erano sciolti. Prima di stirare le zampine trovò la forza di gridare “Abbasso il Duce!” mentre cadeva all’indietro mostrando il pugno sinistro.

Alle 9:12 a.m. il vigile del fuoco Zanchi, eroe cittadino con all’attivo cinquantaquattro estinzioni d’incendio e dodici risse da stadio sedate, trovò il coraggio di avvicinarsi all’appartamento del Terrazzieri. Lo trovò seduto su uno sgabello, i vestiti inzuppati di lacrime e una colata di moccio che gli cascava dal naso arrivandogli fino alla punta dei piedi. Si stava scolando una confezione di scottex e si soffiava il naso con una damigiana di vino. Lo Zanchi si servì delle sue doti di negoziatore per cercare di dialogare col Terrazzieri, utilizzò il metodo inverso, la psicologia dei sè e il voice dialogue, la tattica della marmotta, l’approccio teorico poi quello pratico, la tecnica della sedia vuota, bestemmiò cristi e madonne, ma non riuscì a fermare il pianto del disperato Dante e si ritirò impotente, ammettendo la sconfitta. Quello stesso giorno diede le dimissioni dal corpo dei vigili del fuoco e si ritirò a fare il guardiano del faro sull’isola di Capraia.

Alle 10:51 a.m. il Sindaco convocò d’urgenza il consiglio comunale. “Signori” esordì il primo cittadino di matrice centrosinistra ma terzino destro con un buon tiro di sinistro, “la situazione è drammatica, per non dire tragica. Prima di richiedere l’intervento della Nato, dell’Onu, Unesco, Greenpeace, Unicef, Save the children, eccetera, propongo di giocare un’ultima carta per cercare di risolvere la questione inter nos…o milan nos, se preferite. So che tra voi c’è qualche rossonero purosangue” disse il magnanimo Sindaco, noto per la sua arguzia nel cercare compromessi con tutte le parti politiche cittadine, così da dare voce a tutte le anime del paese. Strategia parabuddista applicata alla parapolitica, la definì qualcuno. Paraculaggine per tutti gli altri.

“la mia proposta è di richiedere l’intervento di Ugolino da Pescia”.

Le facce dei consiglieri si pietrificarono,congelate in una smorfia che esprimeva, dissenso, terrore, raccapriccio, ribrezzo.

Ugolino da Pescia…soprannominato il risolutore. Ex investigatore privato,meccanico, spacciatore, magnaccia, attore porno, prete, sarto, campione di tiro al piattello, lavavetri ai semafori, interprete di sogni, indovino, ciarlatano, cafone, sprecone, fancazzista,si era ritirato a vievere in una roulotte in periferia, a ridosso dell’autorimessa. La sua esperienza nei settori lavorativi più disparati gli permetteva di vivere di espedienti, svolgeva lavoretti che gli venivano commissionati e forniva anche consulenze a buon mercato. Si era fatto una certa fama dando consigli agli adolescenti che avevano problemi di cuore.

“La ragazza mi ha lasciato, Ugolino”. -” Mangia più fibre e andrai meglio di corpo.”

“Sono innamorato ma non ho il coraggio di dichiararmi”-” Hai provato con l’aglio crudo? Dicono sia un toccasana contro le zanzare.”

Il cento per cento dei consiglieri durante le interrogazioni si dichiarò contrario a richiedere l’intervento di Ugolino ma la classica manovra delle tangenti, di cui il sindaco era maestro, sovrano e genitore, permise di ribaltare l’esito della votazione.

Quando Ugolino da Pescia si trovò davanti alla sua roulotte il sindaco, il suo vice, l’assessore alle politiche giovanili tutta la schiera dei consiglieri comunali e di circoscrizione, il segretario, l’usciere, in ginocchio e supplicanti a richiedere il suo intervento, sgranò gli occhi e un fumo di colore nerastro gli uscì dalle orecchie. Qualcuno tra i presenti giurò di aver visto le sue pupille assumere la forma del simbolo del dollaro, mentre un suono da jackpot risuonava nell’aria. Ugolino da Pescia fu assunto alla modica cifra di 8 euro netti al minuto più i contributi, una fornitura vitalizia di prosecco Valdobbiadene e due mignotte al giorno.

Il suo intervento fu verso ora di pranzo. Dante non smetteva di singhiozzare anche mentre mangiava, prendeva a morsi delle scatolette di tonno e tossiva, sparando schegge di metallo più devastanti di quelle di una granata. Ugolino entrò nell’appartamento proteggendosi dietro uno scudo da falange spartana e gli lanciò dei bocconcini di carne cruda per ammansirlo con gli odori e i sapori che ricordassero il suo mestiere. La mossa sembrò funzionare, Dante tirò su col naso inspirando l’odore ferroso del sangue e camminando carponi si avvicinò a Ugolino, mangiò dei bocconi di carne cruda direttamente dalla sua mano, poi gliela leccò. A quel punto Ugolino gli chiese “qual’è il problema, mio buon amico? Perchè sei così triste?” Un secondo dopo era in volo giù per il palazzo, scaraventato dalla finestra dell’appartamento da un Terrazzieri di nuovo fuori di senno, all’urlo di “Portagioieee!!!!”

Ugolino cadde nel vuoto da un’altezza di dodici metri, e atterrò su un’alfa 146, sfasciandola completamente. La sua passata esperienza come stuntman cinematografico gli permise di uscirne quasi illeso, un cerotto su un sopracciglio ammaccato ed era di nuovo operativo.

Ugolino aveva strappato un’informazione preziosa, ora sapevano che il suo delirio era dovuto alla scomparsa del suo portagioie. Chiesero a Pasqualina Terrenzi, l’unica donna che sia stata fidanza con Dante in 47 anni di vita, e scoprirono che il portagioie era stato un suo dono. La loro storia era durata appena tre settimane, pare che il motivo della rottura fosse la mancanza di intimità e romanticismo nella coppia. Si erano lasciati il giorno di san valentino, quando Dante ricambiò il dono del portagioie con un etto e mezzo di bresaola.

Era chiaro il motivo dello strazio di Dante, gli era stato portavo via il ricordo del suo primo e unico amore, che custodiva gelosamente e teneramente. Fu chiesto a Pasqualina di tornare con Dante così da porre fine a quell’apocalisse cittadina, ma ella rifiutò in quanto frequentava un ragazzo, Cesare, il garzone della bottega dei sapori, lui sì che sapeva conquistare il cuore di una donna, per il suo compleanno le aveva regalato un vasetto di crema di tartufo.

Passarono i giorni e la situazione non accennò a migliorare, Dante se ne stava barricato in casa a versare fiumi di lacrime, piangeva mentre mangiava, piangeva mentre andava al bagno, piangeva addirittura mentre dormiva.

Inoltre si presentò il problema della bottega, che rimaneva chiusa e non gestita da nessuno, per cui la carne presente nel locale si stava putrefacendo, emanando un odore di morte in tutto il quartiere. Per evitare il diffondersi di un’epidemia si decise di far detonare il negozio.

L’idea proposta da Ugolino di consegnare a Dante un portagioie qualsiasi spacciandolo per quello originale, recuperato dopo l’arresto dei ladri e il recupero della refurtiva, si rivelò molto infelice. Dante si accorse subito del raggiro e per rappresaglia distrusse tutti i negozi di bigiotteria della città.

Si decise di dare luogo ad un’imponente caccia all’uomo per scovare i furfanti che avevano svaligiato l’appartamento del Terrazzieri, le indagini coinvolsero CIA, FBI, Scotland Yard ed ex spie KGB assoldati a nero,e portarono a individuare come autori del furto una banda composta da tre ladri di galline che rispondevano al nome di Nicola Esposito, disoccupato, Renzo Torretta, inoccupato per scelta, Davide Lorenzetti, in cassa integrazione straordinaria dalla nascita.

L’operazione di cattura fu condotta da un commando dei Nocs coordinati dal Sismi, coadiuvati dal Sisde col benestare dei Cobas, Fiom e i sindacati di base con eccezione dell’Uil, che si era astenuta.

L’arresto avvenne dinanzi al bar Nasti, dove i tre ladri stazionavano in apparente atteggiamento sospetto. Esposito si scaccolava il naso, il Torretta lo osservava tenendo il labbro leggermente piegato in una smorfia di disgusto, mentre il Lorenzetti pareva assopito su una sedia. Russava così forte da far tremare il tavolino che aveva di fronte, un moscone che gli ronzava intorno ad indicare una pessima igiene del Lorenzetti di tanto in tanto scendeva in picchiata ad esplorare le fauci che teneva spalancate e attraverso cui emetteva dei grugniti animaleschi.

Secondo la base operativa i loschi figuri stavano in realtà comunicando in codice, sapevano di essere osservati e stavano studiando una strategia dei fuga. Fu dato ordine al commando di rimanere in attesa e ci vollero quattro ore e quarantacinque minuti di assoluta immobilità del trio e l’esaurimento nervoso del cecchino appostato sul tetto del palazzo di fronte che aveva cominciato a sparar

e all’impazzata ferendo quarantuno inermi civili per convincere il capo delle operazioni a mandare avanti l’operazione.

La banda di furfanti non tentò la fuga e non oppose resistenza all’arresto, anzi, rimase ad osservare con espressione inebetita la scena di panico seguente al gesto folle del cecchino. Uno dei colpi abbattè il moscone e il Lorenzetti ottenne un permesso premio per recarsi al funerale dell’amico scomparso.

La refurtiva fu recuperata e si decise di riconsegnarla al Terrazzieri durante una solenne cerimonia con tanto di videoconferenza in collegamento con 192 paesi per celebrare il solenne momento, ma il macellaio disertò l’evento. Aveva trovato un nuovo amore e non gli importava più nulla del portagioie.

La commessa del negozio di sartoria, Anita Binocci, era rimasta impietosita dalle lacrime del disperato e solo Dante il macellaio, per cui si recò al suo appartamento per portargli in dono un kit di fazzoletti di seta ricamati a mano, con un cuoricino e le iniziali DT ricamate in un angolo. Quando Dante la vide arrestò immediatamente le lacrime e le sorrise amabilmente. Ringraziò del dono e ricambiò regalandole tre etti di fesa di tacchino. La Anita sentì le farfalle nello stomaco e si convinse di essersi innamorata,quando probabilmente era solo appetito dato che era ora di pranzo e lei pesava novantotto chili, fatto sta che i due cominciarono a frequentarsi e vissero a lungo insieme felici e contenti.

Tutto fu bene quel che finì bene, la vita in paese tornò a scorrere monotona e serena per tutti, tranne per Ugolino da Pescia, che morì due mesi dopo per una cirrosi epatica causata da un’overdose di prosecco, che lo stroncò durante un’orgia con due mulatte istruttrici di kamasutra estremo e tantra yoga.

Il titolo ancora non c’è n. 2

Anche questo racconto l’ho scritto sullo stesso frammento di Arsenio ma così modificato:

.. sapeva di aver vissuto la vita che aveva veramente voluto vivere….

Cara figlia,

ti scrivo perché  non so come avvicinarmi a te. I miei tentativi  di parlarti li hai respinti duramente, ma non posso arrendermi, almeno senza prima averti spiegato.

Conosco le accuse che mi muovi. Come darti torto! Sono mancato dalla tua vita  per periodi lunghissimi. Ricordo ancora i miei rientri in casa  e il tuo ignorarmi; mi guardavi come ad un estraneo e piangevi se ti prendevo in braccio. Quando cominciavi ad abituarti a me, era tempo che io ripartissi e sparivo per lunghissimi mesi. Ma vedi cara, che la natura umana a volte può essere così come me, perennemente  inquieta e alla ricerca costante di una verità. Io ero e sono questo, un uomo che ha inseguito  i suoi sogni, per i quali ho lottato e sacrificato molto.

Avevo bisogno di  spazi aperti intorno a me, conoscere i miei limiti e superarli, capire il senso della mia vita. Ho preso la mia barca e sono andato per terra, per mare, ho scalato montagne e attraversato deserti. E quando ritenevo la mia impresa troppo facile, aggiungevo difficoltà. Vuoi un esempio? Giro del mondo in barca navigando da est a ovest controcorrente. Qualche volta ho rischiato anche la vita.  Sono rimasto settantuno giorni  su un gommone perso in mezzo al mare perché  un branco di orche marine aveva distrutto la mia barca. Mi sono salvato dall’assalto, ma ho rischiato di morire di fame e di sete. Nel gommone non avevo provviste.

Potrei raccontare per ore le mie storie. E benché  potevano rivelarsi pericolosissime nel giro di pochissimi minuti, per me sono state vita.

Alla conclusione di ogni avventura, rientravo in casa desideroso di rivedervi, di abbracciarvi perché  mi eravate mancate, tu e la mamma, le mie ancore di salvezza nei momenti più critici quando pensavo di non farcela.

Godevo del calore della casa, della sua quiete che assorbivo con ogni fibra del mio corpo, ben sapendo  che dopo qualche tempo, avrei di nuovo sentito il richiamo dell’avventura e sarei partito, leggendo negli occhi di tua madre la comprensione e il dolore e sul tuo volto il broncio perché  ti abbandonavo.

E’ questa la verità, mia cara figlia, ma ti prego ascoltami.

E’ anche questa la nostra natura umana e non possiamo combatterla. Sono stato sempre fedele a me stesso e vorrei tanto con il mio esempio insegnarti che ciò che conta é la volontà di vivere e di non arrendersi. Questo per me é dare un senso alla vita.

Queste sono le parole che avrei voluto dirti per farti capire  perché dovevo tutte le volte partire né rimanendo  avrei potuto darti ciò che tu chiedevi.

Libera il tuo cuore dalla rabbia  e dal dolore di cui é colmo e ascoltalo.

Solo così possiamo riconquistare i nostri ruoli di padre e di figlia e abbandonarci all’affetto che tanto ci é mancato.

Ora sono qui. Il mio richiamo sei tu, mia amatissima figlia. Forse c’é ancora tempo per dipingere una vita completamente nuova su una grande tela bianca.

Tuo padre.

Il titolo ancora non c’è

Questo racconto l’ho scritto su un frammento di Arsenio:

…..sapeva di non aver vissuto la vita che avrebbe veramente voluto vivere……

Quanto tempo è passato? dieci anni. Sono  passati e io non me ne sono accorto, troppo preso a rincorrere…. cosa? Ora mi sembra di non saperlo più. Ma allora non avevo dubbi: le mie ambizioni e i miei sogni erano lo scopo della mia vita. Ero così convinto dei miei obiettivi e soprattutto così preso dai miei bisogni, così rivolto verso me stesso da non ascoltare la voce di chi mi stava vicino.

Vedi figlia mia, quando sei nata, io e tua madre eravamo molto innamorati, forse troppo giovani e pensavamo che la vita era facile, semplice perché avevamo bisogno solo del nostro amore. Poi sono arrivate le difficoltà: io di giorno lavoravo e di notte  preparavo la mia tesi di laurea. Ma tu piangevi, piangevi  tutte le notti. Tua madre si alzava  per cullarti e per evitare a me di interrompere lo studio, ma non eravamo preparati a questo, alle pappe, agli orari, ai pannolini. Piano piano la fatica ci ha logorato; amarci non bastava più e inevitabilmente ci siamo allontanati, senza che ce ne rendessimo conto.

Devo confessare, ora, in questo momento in cui per la prima volta nella mia vita riaffiorano i ricordi e un malessere strano mi sta prendendo l’anima, ebbene devo confessare che un senso di soffocamento mi chiudeva la gola tutte le volte che ero in casa.

Studiavo moltissimo perché volevo esse il numero uno e mi ritenevo molto capace di affermarmi. Avevo prospettive importanti, pretendevo il mondo ai miei piedi. Di questo ero sicuro. Perciò non volevo ostacoli. E tu lo eri. In quel momento io ero cieco e sordo. Avevo già dei contatti, mi cercavano, mi proponevano ma dovevo essere libero, non capivo altro. Il mio mondo era in quel futuro prossimo. Non ho retto e vi ho lasciato. Sono scappato via.

Ma solo ora capisco che non è stato il bisogno di libertà o la mia ambizione a farmi fuggire, ma la responsabilità di essere uomo e padre. Padre di un “esserino” che dipendeva da me completamente  e io avvertivo il potere di un genitore di plasmare suo figlio e la responsabilità che ne consegue. Ho avuto paura e sono scappato.

Ti chiedo perdono figlia mia. Solo ora capisco e la vergogna che provo é insostenibile.

Vuoi sapere come é stata la mia vita? Se si sono realizzate tutte le mie aspirazioni?

Ti risponderò figlia mia, senza mentire: no, non è andata come immaginavo. Ho lavorato tanto, ho conosciuto il mondo e la gente.  Se ripenso quegli anni, ricordo ancora l’esaltazione intima che mi faceva sentire invincibile, finché non mi sono reso conto che non ero né forte né  vincente. Tutte le mie azioni erano accompagnate dal compromesso. Mi convincevo che non ci sarebbe stata una prossima volta, che quella era l’ultima. Ma non andava così ed ero perennemente accompagnato dalla sensazione che una melma nera e densa si appiccicasse sui miei abiti e mi trascinasse dentro un pozzo nero. Ma dovevo continuare  o per me si sarebbero chiuse le porte  di quel mondo dorato a cui avevo tanto aspirato.

Ho cominciato a soffrire di mal di testa, sempre più forti, finché qualcosa é scattato dentro di me e mi sono fermato per riflettere e raccogliermi in me stesso. Solo in quel momento ho capito che ero solo e avevo dimenticato  che vuol dire amare una donna come tua madre e una figlia come te.

Per la seconda volta in vita mia ho mollato tutto e ora sono qui e vi chiedo perdono per avervi dimenticate per tanto tempo e la possibilità  di ricominciare da capo.

Lo so figlia mia che non ci conosciamo, ma possiamo provare. Forse non è troppo tardi; ora sono pronto per essere padre e marito. Ho sbagliato figlia mia, ma ti prego ascoltami. Perdonami. Perdonare può aiutare il tuo cuore  a svuotarsi della rabbia e del dolore che lo ha colmato fino ad ora. Anche zoo dovrò perdonarmi, se mai ci riuscirò, perché  questa è l’unica strada che possiamo percorrere  per poterci riunire e trovare la pace e l’armonia che in tutti questi anni ci è mancata.

Sei molto giovane, devi ancora conoscere tanto e hai bisogno di me, tuo padre. E io? Io ho bisogno di recuperare  il tempo, tutto quello che ho perso mentre crescevi senza di me.

Possiamo ridipingere la nostra vita, piano piano, giorno dopo giorno e lentamente digerire il boccone amaro della nostra separazione. Abbiamo bisogno l’una dell’altro. io e tua madre ci vogliamo ancora bene, ma per essere una famiglia abbiamo bisogno anche di te.

 

 

OMBRE: nuovo esperimento letterario

Chi vuole può continuare questo capitolo di un romanzo/racconto, scrivere la parte iniziale, modificare le parti già presenti: insomma avanti tutta e in sella alla coccinella 😉

1.

La sveglia sul comodino cominciò a vibrare furiosamente. Era ora di alzarsi. Afferrai un bicchiere colmo d’acqua riposto di fianco alla sveglia e lo vuotai tutto d’un fiato. Avevo la gola in fiamme, per aver fumato troppo la sera precedente e la bocca arida come il deserto era l’inutile cimelio dell’ennesima serata scivolata via senza significato, trascorsa in una bettola del centro, seduto ad un tavolo da solo, davanti ad una pinta di birra che ho osservato per ore, sorseggiandola con disinvoltura, non per darmi un tono, ma per farla durare il più possibile, perché non avevo i soldi per comprarmene un’altra e dovevo giustificare la mia presenza prolungata nel locale. Non avevo voglia di tornare in camera, così avevo deciso che il mio passatempo per la serata sarebbe stato quello di compatirmi mentre fissavo il vuoto in un locale lercio e malandato, dove i clienti sono tutti miserabili pezzenti come me, attratti dalla economicità dei drink e dal fatto che i gestori non si fanno troppe domande se ti vedono troppo a lungo seduto al bancone con la faccia gonfia e l’espressione inebetita dall’alcool. Mentre versi fiumi di lacrime, magari. O lanci sguardi di sfida, colmi di odio e di rabbia, che tutti evitano.

Mi alzai dal letto per dirigermi al bagno. Notai che il letto del mio compagno di camera non era disfatto, e ciò significava che non era rientrato per la notte. Accennai un sorriso malinconico mentre lo immaginavo svegliarsi in una casa che non riconosceva, sbronzo e malandato, con un grande cerchio alla testa, conseguenza di una serata goliardica, condotta da chi è consapevole che si vive una volta sola e bisogna divertirsi finchè è possibile…io non sono mai riuscito a godermela la vita, maledizione! E ho sempre invidiato chi lo faceva. “Beati loro…”

Dopo una breve doccia mi vestii e uscii dalla camera per fiondarmi nelle strade del centro, con il mio solito andamento frenetico, il mio passo veloce, la mia camminata ansimante, tipica di chi va di fretta, come se avesse l’inferno alle calcagna… Mi serviva un lavoro, cazzo! Ero caduto in disgrazia e i pochi soldi messi da parte in tanti anni stavano terminando inesorabilmente. Ancora qualche giorno e non avrei avuto neanche i soldi per pagarmi il posto in camera in foresteria nella casa dello studente a cui avevo avuto accesso spacciandomi per studente universitario. 11 euro a notte…ormai sul conto non mi rimanevano più di 40 euro. Mentre ero preda di questi pensieri, pronto a rielaborare per l’ennesima volta gli ultimi avvenimenti e a chiedermi cosa fosse andato storto, come potevo essermi ridotto a quel modo, arrivai dinanzi alla porta di un ristorante del centro. Avevo risposto ad un annuncio in cui cercavano un lavapiatti e avevamo fissato un colloquio per quella mattina alle 10:00.

Varcai la soglia della porta e mi ritrovai nella sala di un modesto e anonimo locale, che probabilmente serviva come luogo di ristoro per lavoratori durante le pause pranzo. Di sicuro non era un ambiente distinto ed elegante.

Le luci della sala erano ancora spente. “Buongiorno” dissi, ma non ebbi risposta. “Buongiorno”, ripetei, con tono più deciso. “Buongiorno a lei” mi rispose finalmente una voce proveniente dalla destra della sala. Mi voltai nella direzione da cui mi era parso che provenisse la voce e notai la porta della cucina. Un braccio si affacciò dalla porta invitandomi ad entrare con un gesto deciso. Entrai e mi trovai dinanzi ad un omone sulla cinquantina, tozzo e pelato, che portava due spessi occhiali da vista, impegnato ai fornelli a cucinare una brodaglia di qualche tipo in un pentolone grosso almeno quanto il suo busto. Il locale era invaso da un nauseante odore dolciastro, che non seppi identificare fin quando non vidi dei tentacoli spuntare dal pentolone. Stavano cucinando del polipo, ma non ricordavo avesse un odore così sgradevole, per cui mi interrogai sulla genuinità del polipone che stava ammollando in acqua e giunsi alla conclusione che non doveva essere freschissimo.

“E’ qui per il colloquio?” mi chiese l’omone, senza sollevare lo sguardo dal pentolone.

“Sì, io…”

“E’ un lavoro di merda” mi interruppe, senza darmi il tempo di presentarmi o spiegare alcunchè, “c’è da sgobbare come dei muli, più che un ristorante siamo una mensa per lavoratori, abbiamo convenzioni con varie aziende che ci mandano i loro dipendenti durante le pause pranzo, quindi si lavora a ritmi industriali. Piatti e pentole da lavare fin quando non ti si staccano i gomiti.”

Fece una pausa per scrutarmi in viso per la prima volta. Mi osservò per bene in volto con i suoi sottili occhi porcini, forse cercava di capire dal mio sguardo se era riuscito ad incutermi timore e a scoraggiarmi con le sue parole.

“Sei giovane, non sarai mica uno studente universitario? Guarda che questo non è un lavoretto per arrotondare, c’è da farsi il culo…”

“No, signore. Non sono più uno studente. Ho terminato i miei studi. Mi sono laureato lo scorso anno in giurisprudenza.”

A quelle parole l’omone si tolse gli occhiali. Diede prima uno sguardo al pavimento, poi si infilò una delle stecchette in bocca e mi lanciò un’ occhiata incuriosita.

“E allora mi spiega che ci fa qui ‘AVVOCATO’ ?” disse in tono di scherno, scandendo con tono malizioso l’ultima parola.
“Mi serve un lavoro qualsiasi, ho bisogno di soldi e con questa crisi economica mi adatto a fare qualunque cosa. Non si faccia condizionare da quello che le ho detto, il mio titolo di studio è un pezzo di carta, nella mia vita ho fatto decine di lavori, partendo da quelli più umili e il duro lavoro e la fatica non mi hanno mai spaventato, mi sono sempre fatto in quattro quando c’era da sgobbare”. Stavo mentendo spudoratamente, ma la sortita sembrava avere avuto effetto perché l’omone mi guardava con un’espressione sempre più incuriosita.

“La paga è una miseria, è un lavoro part-time, si lavora dalle 10:00 alle 15:00 sei giorni a settimana per sei euro lordi di paga all’ora. In più sarai subordinato a quel ragazzo negro che è il mio aiuto cuoco e quindi come mansioni ti è superiore”. Mi indicò un ragazzo di colore che prima non avevo notato, seduto su uno sgabello intento a pelare delle patate, mentre guardava il suo titolare con aria risentita. “Ci pensi? Un marocchino che comanda ad un avvocato! Ahahahah…” scoppiò in una grassa risata che terminò in una sonora serie di colpi di tosse, che rivelavano cattive abitudini legate al fumo. Dopo una serie di rantoli e di sospiri si ricompose e fece cenno di avvicinarmi a lui. ” E va bene boy, voglio darti fiducia. Ti assumo per un periodo di prova di 4 giorni. Vediamo come te la cavi, se non mi deludi avrai un contratto a tempo determinato per un anno. Però ti ripeto che la paga è bassa e c’è da sgobbare…”

“E’ sempre meglio di niente. E le ripeto che il lavoro non mi spaventa. Sono pronto a spaccarmi la schiena”.

“Molto bene. Lascia le tue generalità e il tuo codice fiscale alla ragazza che sta entrando ora in sala. E’ la mia commercialista, manderà i tuoi dati al collocamento per l’assunzione in prova.A proposito io sono Antonio” disse, porgendomi la sua mano callosa. “Fabrizio”, risposi stringendogli la mano con la mia, grande poco più della metà della sua.

“Domani alle 9.30 si comincia. Fatti trovare qui. Mi raccomando puntuale”.

“Sì, signore. Grazie, signore. Non la deluderò…”

“E piantala con stò ‘signore’. Non siamo mica nell’ esercito. Dammi del tu, avvocà!” Scoppiò di nuovo in una sonora risata, interrotta dai consueti colpi di tosse.

Dopo aver disbrigato le pratiche con la commercialista uscii dal ristorante e mi avviai lungo il corso principale. Ero stordito e confuso. Finalmente un lavoro! L’opportunità di rimanere a galla. Ma a che prezzo? Di sgobbate furiose per quattro spiccioli, in un ambiente che non conoscevo e che mi aveva già creato disagio al primo impatto?

Dinanzi a me, la strada si dipanava in modo vorticoso.